Piano di scorta e lavoro. Cercasi equilibrio (precario)

Servirebbe un piano di scorta (prima di firmare le dimissioni), ma… ops! Non ce l’ho.

Da un recentissimo sondaggio è emerso che 9 italiani su 10 sono disposti a cambiare lavoro senza avere il piano B. Le lettere di dimissioni aumentano e le aziende fanno fatica (non poco) a trovare i profili da assumere. E quando si trovano? Si perdono in tempo zero, almeno così sembrerebbe.

Dire addio a stabilità e economica, abitudini e zona confort non fa più paura. Al contrario, si teme di restare prigionieri a vita di quattro mura che ci stanno strette. Cambiare per camminare sul filo della precarietà fa tendenza ed è diventato di gran lunga più stimolante del posto in azienda. Il Panta rei sta raccogliendo i suoi frutti. Ma c’è un altro mood-action che tenta di fare ombra alla filosofia di Eraclito: Se vuoi fare un passo avanti, devi perdere l’equilibrio per un attimo.” Parliamone, anzi, scriviamone, che l’argomento si fa molto interessante da diversi punti di vista, sociale, culturale e naturalmente professionale.

Partiamo dal piano di scorta, il desaparecidos del Nuovo Millennio. Anche se…

Il cosiddetto Piano B potrebbe essere l’ultimo dei problemi.

Me ne vado o non me ne vado? Me ne vado.

E se me ne vado, che succede? Vedremo. Per ora non ci voglio pensare.

L’ambiente mi sta stretto e i colleghi pure. Voglio investire le mie energie in modo diverso. Prima o poi troverò il coraggio di investire in un’impresa tutta mia.

Si tratta di rivoluzione o di involuzione professionale?

Metà e metà. Rivoluzione per la persona, se decide di cambiare per poi sentirsi realizzato. Involuzione per l’azienda che ha bisogno di persone che credano nella mission. La sfida in questo caso è cambiare l’aspetto gestionale, mettendo in primo piano le capacità individuali del dipendente. Entrambi i punti di vista si basano sul concetto di azione e reazione.

Quanti e quali sono i motivi che spingono un dipendente a mollare di punto in bianco una posizione di lavoro più o meno stabile, ma “ristagnante” dal punto di vista motivazionale, senza sapere cosa gli riserverà il futuro?

Sono un bel numero (9/10), lo abbiamo visto all’inizio. Ritornare su questo dato è importante, perché sembra che le dimissioni volontarie siano il focus point del lavoratore dipendente.

Il Motivo

La libertà di decidere per se stessi è senza dubbio la Motivazione delle motivazioni.

E gli altri motivi?

Sono tutt’altro che apparenti. Anzi, sono articolati e spesso profondi

Vediamone qualcuno:

  • si fa fatica a relazionarsi con i colleghi
  • si nutre sempre meno fiducia nel futuro
  • non ci si sente apprezzati dal management
  • le possibilità di crescita sono ridotte ai minimi termini
  • le responsabilità superano le competenze

Piano di scortaA proposito di relazioni, è sempre più difficile convivere negli ambienti lavorativi, dove l’organigramma si trasforma in organidramma. La meritocrazia non è quasi mai un criterio condiviso. Si sceglie di far crescere profili non adatti a ricoprire posizioni di comando, perché non sono veri e propri leader stimati dal gruppo. Tuttavia, è anche attraverso le ingiustizie che si subiscono che si diventa unici. Calimero insegna. Se da una parte è innegabile che siamo nel pieno di una società iper-social, dall’altra, negare che il confronto tra colleghi sia diventato uno dei casus belli del fuggi fuggi sarebbe un errore. L’incubo più ricorrente è prendere ordini da una persona che ti fa passare la voglia di impegnarti. Ma non è l’unico. I dipendenti si sentono poco considerati e sotto stress.

Perché si “sceglie” – piuttosto – di navigare a vista?

Perché sono cambiate le priorità. A un certo punto arriva il momento di cambiare aria e non c’è stipendio fisso a fine mese che tenga. Succede e basta, vuoi per inseguire un sogno, vuoi per fare un salto nel vuoto che non si sa dove porterà. L’importante è che sia lontano da un climax in cui ci si sente “dati per scontati” e per niente valorizzati. Il dipendente non si sente più una risorsa, ma un nome e un cognome, una presenza non indispensabile, una spesa controllabile da inserire nel budget di fine anno.

È anche così che da dipendente si diventa freelance

Ebbene sì, scegliere di lavorare per contro proprio è un piano di scorta abbastanza gettonato.

Definirla “scelta” è riduttivo, perché prima di passare dall’altra parte della barricata ci vuole un po’ di tempo. Una cosa però è certa: nel periodo di transizione/introspezione si trova il coraggio di imbarcarsi in una nuova avventura lavorativa, senza quasi mai contemplare l’opzione di tornare sui propri passi.

Per questa e altre ragioni (pandemia docet), la solitudine sta vivendo un momento non d’oro, bensì di diamante

Soprattutto se si sceglie di lavorare nel digitale. Mille professioni stanno andando in questa direzione, perché la richiesta in tal senso sta aumentando. Le persone lavorando dietro un pc si rigenerano, si reinventano, si prendono cura di quei desideri nascosti e trascurati troppo a lungo per necessità o per senso del dovere. Si lavora da soli e da remoto. E funziona! La solitudine dei freelance è costruttiva e produce risultati. Le persone cercano sempre di più angoli di pace in cui riscrivere una storia a lieto inizio del proprio futuro lavorativo, in cui sono contemplati nuovi obiettivi.

Il team work e il connubio persona-potenzialità che fine hanno fatto?

Il team work, quello che ho vissuto in prima persona con Nike Retail, è un lontano ricordo. Mi sembra ieri, ma è passato qualche anno da quando si lavorava con un obiettivo comune e ogni persona del team aveva un ruolo ben preciso. Le problematiche c’erano, perché gestire le persone e il business non era semplice. Si facevano huddle, one one. Il confronto era all’odine del giorno. C’era la voglia di far bene, di raggiungere buoni risultati tutti insieme. Si cercava di fare bene. Certo, il prodotto aveva un ascendente molto forte sui dipendenti, ma non era solo questo. Non si trattava solo di lavorare per la multinazionale leader mondiale nel settore dell’abbigliamento sportivo. Lavorare per Nike era un incentivo, un motivo d’orgoglio, perché quando serviva c’erano attenzione e ascolto. Le cose sono cambiate parecchio. Oggi le persone sono slittate non dico all’ultimo posto, ma quasi. Una vale l’altra. Non è così che dovrebbe funzionare. E infatti, i risultati non si sono fatti attendere, dato che 9 persone su 10 preferiscono l’incerto per il certo. Una volta, anche se avevi poca esperienza ti permettevano di farla in azienda, sul campo. C’erano i corsi, c’era chi ti formava con entusiasmo e familiarità sul prodotto e sulle strategie di vendita. Eri “sotto osservazione”, è vero, ma in un’ottica ambiziosa, di crescita. Intendo dire che eri incoraggiato a brillare per le tue capacità e pronto a lavorare sui tuoi punti di debolezza, anche se l’azienda non era tua. Era, appunto.

Veniamo al presente: io sono per il bicchiere mezzo pieno e tu?

Non è per niente detto che lasciare la strada vecchia non ci porti verso una nuova più stimolante. Io l’ho fatto e ora sono qua, con la mia professione. Ho fatto tesoro di ciò che ho imparato e mi sono tuffata in un nuovo progetto. Quando sei convinto di ciò che stai facendo, anche la fatica assume un significato diverso e diventa passione. Puoi sentirti stanco di dover pensare a tutto, a fine giornata. Ci sta. Sei stanco ma felice di aver lavorato a qualcosa di tuo, a modo tuo, nonostante le difficoltà e le sfide che devi affrontare ogni giorno.

Anche tu hai lasciato la strada vecchia per la nuova?

Come ti sei reinventato?

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